Crisi d’impresa? Può risolverla il professionista coach

Per risanare le “ferite” di una crisi d’impresa sta prendendo sempre più piede la figura mista di un professionista che abbia competenze specifiche e, in più, riesca anche a fare da coach e consulente oltre che, in qualche caso, da mediatore per riparare i danni.

Il decreto legislativo

Ultimamente si fa un gran parlare di coaching e leader motivazionali, ma in questo caso si tratta di una figura regolamentata da skills tecniche e, soprattutto, da un decreto legislativo (il 14/2019): è proprio il Codice della Crisi d’Impresa, infatti, a suggerire di considerare questo tipo di figura all’interno di una azienda per fronteggiare in maniera moderna ed empatica eventuali procedure di allerta crisi.

In particolare, l’articolo 3 del Codice stabilisce “i doveri del debitore”, mettendo al centro di ogni responsabilità proprio l’imprenditore, che dovrà essere capace di adottare misure idonee a rilevare tempestivamente un eventuale stato di crisi e assumere immediatamente le contromisure migliori per fronteggiarlo; per quanto riguarda l’imprenditore collettivo, invece, è stabilito che sia necessario un assetto organizzativo adeguato ai sensi dell’articolo 2086 del Codice Civile, sempre in ottica di tempestiva rilevazione di uno stato di crisi da affrontare.

Ed è qui che si inserisce la figura di questo nuovo professionista, un avvocato o un commercialista, che può aggiungere alle proprie competenze anche abilità di coaching grazie ad una formazione mirata.

Un mix di conoscenze che è implicito che una figura del genere possegga, in quanto deve essere in grado di affiancare l’imprenditore a monitorare le criticità e i dati aziendali, contemporaneamente mettendo in atto contromisure strategiche e organizzative risolutive.

Cambiamento culturale

Non solo una nuova figura lavorativa sempre più specializzata, quindi, ma anche imprenditori più consapevoli dei propri ruoli e delle proprie mansioni e responsabilità: un vero e proprio cambiamento culturale nel settore anche perché, affinché tutto questo abbia successo, l’intero percorso deve fondarsi sul tassello imprescindibile della fiducia bilaterale (e non solo).

Non c’è più spazio per i vecchi schemi assolutistici e di divisione tra capo o piani alti e impiegati: l’idea è di creare un ambiente lavorativo fluido, in cui tutti siano sempre aperti al confronto e alla condivisione, pronti ad uscire da standardizzate e obsolete zone di comfort per raggiungere livelli prestazionali sempre più alti. Insomma, la parola chiave è “interazione”.

È l’evoluzione psicologicamente corretta del Team Building, che qualcuno ha chiamato “finanza comportamentale” quando si occupa di contratti di lavoro – fino ad ora referenziati da ottimi feedback – tra questi neo-promotori finanziari moderni e, ad esempio, imprenditori privati intenzionati a fare investimenti ma bloccati e sfiduciati dalle solite interazioni fredde, iper burocratizzate e poco trasparenti con enti e banche.

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